Sensus fugit
Lo spazio che ci divide dalla realtà, dal mondo, esiste davvero? 
Non è la pelle: la pelle ci trasmette sensazioni, ci collega ad esso, ci permette di sentire le sue vibrazioni, il suo calore o la sua assenza, funge da connettore per i nostri stati emotivi. 
Non sono nemmeno le emozioni, che sono uno strumento di lettura del mondo del tutto personale, spesso didascalica.
Una lastra di vetro, un velo sensoriale. Individualità e organicità. Due aspetti inscindibili, che sincronicamente definiscono il nostro essere e il mondo: in altre parole l’esistenza delle cose. 
Lo spazio quindi non è un elemento che ci divide dalla realtà, piuttosto ci consente di guardarla, di catturarla e la percezione del mondo avviene proprio grazie alla sua apparentemente incongrua assenza di definizione.​​​​​​​
La mia ricerca
Da diversi anni ormai concentro la mia sperimentazione fotografica sulla rappresentazione delle emozioni tramite la tecnica ICM, astraendo la realtà così per come la percepisco, dando una veste alle sensazioni che questa mi rimanda. Da qualche tempo però è nata in me una nuova esigenza, che potremmo senz’altro definire complementare, ossia la necessità di focalizzarmi anche su ciò che è esterno a me, sul mondo per come si presenta ai miei occhi. Altri individui, altre situazioni, altre vite. In altre parole, la street photography.
Analizzando quindi le mie foto, che sono frutto del mio subconscio tanto quanto della cultura e delle immagini di cui siamo inondati quotidianamente, mi sono scoperta a domandarmi: cosa c’è nel mezzo? Cosa c’è tra percezione e realtà? Del resto, ciascuno di noi legge il mondo in modo del tutto personale, tramite i propri occhi e il proprio vissuto, questo è lapalissiano. Come lo è anche asserire che ciò che è esterno sia, per definizione, “altro” rispetto a noi. Ma mi sono chiesta: possibile che non ci sia un nesso causale tra quello che provo e quello che vedo? Nessun punto di congiunzione tra la mia fotografia emozionale e quella street?
La risposta è stata chiaramente che questo nesso esiste, anzi, in qualche modo è proprio questo a permettermi di esperire ciò che osservo.
Dire che ciò che vedo influisce su di me è ovvio, perché sono io stessa a far parte del mondo. Posso cercare di astrarlo in tutti i modi quando scatto, posso provare ad allontanarmi da esso anche solo per meglio definire i contorni di ciò che sento, di ciò che mi tocca, ma la verità è che i colori rimangono, le forme, seppur sfocate o distorte, creano la mia foto e lasciano un segno. Questo il punto focale: in ogni scatto, che sia street o ICM, si crea quindi uno scambio sincronico tra ciò che mi spinge a scattare e quello che catturo attraverso lo scatto. Uno spazio, appunto, intermedio grazie a cui fluisce la mia definizione del mondo e di me stessa.
Le emozioni e le sensazioni che proviamo dialogano con la realtà tangibile, proprio attraverso questo spazio. Che non è “vuoto”, ma è un mezzo grazie al quale le nostre emozioni e gli input della realtà in qualche modo si contaminano confondendosi in un medesimo ‘sentire’.
Mi sono quindi soffermata a fare chiarezza, tra pensieri, emozioni e fotografie scattate.
Indubbiamente mi riconosco un approccio ossessivo alla fotografia, una frenesia che diviene spesso urgenza e nel momento in cui non esco a scattare mi prende quasi un senso di magone. Ma è necessario fermarsi a guardare ciò che si fa, perché c’è sempre un motivo per le nostre azioni, e ricomporre il nostro puzzle mentale è indispensabile per conoscersi meglio e andare oltre i nostri schemi di pensiero.
È così che è nato il progetto “Sensus fugit”, da questo bisogno di capire il mondo e di capire me stessa. Del resto, da che ne ho memoria, l’analisi e l’espressione della mia identità più intima è sempre passata attraverso le arti figurative in genere. La passione per il disegno da piccola, la scelta di intraprendere gli studi di architettura prima e quelli di grafica pubblicitaria poi, e, ovviamente, la pittura e la fotografia mi hanno sempre accompagnata per la realizzazione di me stessa.
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